Assunzione in ruolo di 148 mila
docenti precari
Chiunque si
accinga a leggere il piano La
buona scuola
accoglierà con favore la proposta di assunzione a tempo
indeterminato di circa 148 mila docenti (con il relativo svuotamento
definitivo delle GAE e l'assunzione dei vincitori del concorso 2012)
a partire dal prossimo 1° settembre 2015. E' sicuramente un segnale
più che positivo che ricalca le proposte già avanzate dal nostro
sindacato nel 2010 con l'Operazione
centomila.
Altri elementi importanti sono l'avvio di un sistema di reclutamento
su scala nazionale basato sui concorsi e il progetto di costituzione
dell'organico funzionale. Rimane aperto il problema delle risorse –
tre miliardi di euro adesso, quattro tra dieci anni – in
particolare se si pensa che, per ordini di grandezza di gran lunga
inferiori, la copertura finanziaria non è stata trovata per la
risoluzione di Quota
96;
confidiamo comunque nel fatto che non si tratti soltanto di promesse
bensì di una progettualità politica sostenuta da effettive
coperture economiche.
Non del tutto
condivisibile è invece il progetto di riforma delle graduatorie di
istituto. Il governo intende conservare soltanto la II fascia; in
essa sono inseriti i docenti abilitati all'insegnamento che, per
varie ragioni, non sono presenti nelle graduatorie ad esaurimento. La
prima fascia verrà svuotata a seguito delle immissioni in ruolo
effettuate dalle Gae. La terza fascia invece, che racchiude al suo
interno i docenti non abilitati, dovrebbe essere eliminata per
volontà governativa e a sostegno di questa tesi l'esecutivo propone
delle argomentazioni poco persuasive: si sostiene infatti che i
lavoratori non abilitati non
possono essere considerati precari, se non si vuole "correre il
rischio paradossale" di considerare chiunque abbia svolto pochi
giorni di supplenza come un precario della scuola (p. 25). Non è
detto, però, che tutti i docenti precari inseriti in III fascia
abbiano alle spalle pochi giorni di insegnamento: inoltre, non è
del tutto scontato che la maggior parte dei precari non abilitati
siano riusciti a frequentare i TFA o i PAS e non è neanche equo che
l'amministrazione abbandoni al proprio destino, dopo aver fatto
ampiamente ricorso a loro, uomini e donne che hanno lavorato per un
periodo più o meno lungo della loro esistenza nel mondo della
scuola.
Del
resto l'amministrazione potrebbe avere ancora bisogno di alcuni di
loro. Ogni anno, ad esempio, il numero di immissioni in ruolo dei
docenti di matematica delle medie nella provincia di Torino risulta
inferiore al numero di posti previsti per il ruolo; ne consegue che
tutte le supplenze annuali vengono assegnate a docenti inseriti in II
e III fascia di istituto.
L'organico funzionale
Nelle
intenzioni del governo le supplenze brevi verrebbero assegnate ad una
parte del personale docente assunto in ruolo il prossimo 1°
settembre: circa 60 mila insegnanti dell'infanzia e primaria e circa
20 mila della secondaria costituiranno l'organico funzionale di
ciascuna singola scuola o di reti di scuole. L'organico funzionale,
oltre a coprire le supplenze brevi, servirà ad ampliare l'offerta
formativa e ad aumentare il tempo scuola (tempo pieno e prolungato)
nella scuola dell'infanzia. Tutto questo è positivo a condizione che
il MEF garantisca la copertura dei costi la qual cosa non è affatto
scontata. Anche questo aspetto del piano è stato proposto da tempo
dalla FLC: il nostro sindacato chiede infatti l'istituzione di un
organico funzionale di docenti e ATA (questi ultimi quasi del tutto
dimenticati da La
buona scuola che
li cita soltanto due volte come avremo modo di ricordare più avanti
nel testo).
L'istituzione
dell'organico funzionale al piano dell'offerta formativa della
scuola, oltre a qualificare il progetto di scuola e a dare gambe
all'autonomia scolastica, potrebbe assorbire tutte le necessità
delle scuole, inclusa anche la copertura delle supplenze temporanee
inferiori ad un certo periodo di tempo. Tutte queste proposte sono
state presentate dalla FLC, nel giugno 2013, nel dossier La
scuola vince in quattro mosse.
Per
il governo la scuola fa carriera, per noi produce cultura!
È bene
ribadirlo: è del tutto condivisibile la proposta di assunzione di
148 mila insegnanti così come è un dato più che positivo che
l'esecutivo abbia intenzione di realizzare finalmente l'organico
funzionale. Sono proposte che la FLC sostiene da sempre e che ha
ulteriormente ribadito nel mese di luglio col Cantiere
scuola. E'
del tutto irricevibile invece il progetto di eliminazione degli
scatti di anzianità a favore di un nuovo meccanismo di progressione
salariale incentrato su quel che il governo genericamente definisce
“merito”.
Cerchiamo di capire come il merito dovrebbe entrare nelle nostre
scuole e in che modo, al contempo, verrebbe modificata la
progressione di carriera dei docenti. L'esecutivo intende eliminare
gli scatti di anzianità (vale a dire gli automatismi di progressione
salariale esistenti attualmente) con degli “scatti di competenza”
che nelle intenzioni dovrebbero essere legati “all'impegno e alla
qualità del lavoro” (p. 53). Questi ultimi due aspetti andrebbero
misurati, secondo gli autori del progetto, ogni tre anni per mezzo
del conseguimento di quelli che vengono definiti crediti “didattici”,
“formativi” e “professionali”. I primi “si riferiscono alla
qualità dell'insegnamento in classe e alla capacità di migliorare
l'apprendimento degli studenti”; i secondi fanno riferimento
all'aggiornamento professionale dei singoli docenti; gli ultimi
possono esser ottenuti svolgendo attività aggiuntive all'interno
dell'Istituto (coordinatori di classe, attività progettuali ecc.).
Rimangono fumosi i criteri per mezzo dei quali ciascun docente
dovrebbe conseguire questi crediti: non vorremmo si aprisse una nuova
corsa al credito formativo certificato magari tramite corsi on
line
a pagamento. Altrimenti ci troveremmo nella situazione paradossale di
vedere lavoratrici e lavoratori intenti a pagare corsi nella speranza
di ottenere uno scatto. Si badi: speranza e non certezza visto che
ogni tre anni lo scatto di competenza (60 euro in più in busta paga)
spetta al 66% dei docenti. Il comitato di valutazione, del resto, è
composto anche dal dirigente scolastico;
sicché i docenti che intendono fare carriera, o che vogliono
semplicemente assicurarsi un adeguamento salariale, dovrebbero
necessariamente uniformarsi alle decisioni e, più in generale, alla
“visione del mondo” della dirigenza con buona pace del pensiero
critico e della libertà di insegnamento. Infine, i medesimi docenti
“allineati” dovrebbero essere costantemente fortunati in quanto
non è affatto scontato che riescano a rientrare, per ciascun
triennio fino a fine carriera, nella cerchia del 66% dei meritevoli e
competenti.
Secondo
gli autori la competizione per lo scatto consentirà al sistema di
trarre dei vantaggi (e tutto questo ricorda la vecchia idea liberista
che il mercato sia in grado di regolarsi da sé): i docenti
mediamente bravi, si afferma, tendenzialmente si sposteranno nelle
scuole peggiori, cioè nelle scuole “dove la media dei crediti
maturati dai docenti è mediamente bassa” (p. 58) in modo da avere
più possibilità di ottenere lo scatto di competenza. Questo tipo di
mobilità consentirebbe nello specifico alle scuole peggiori di
migliorarsi. Un ragionamento siffatto però fa equivalere, del tutto
arbitrariamente, il livello qualitativo di una scuola al livello di
preparazione del corpo docente. Bisognerebbe prendere in
considerazione anche altre variabili quali ad esempio il contesto
socio-economico e culturale, la
presenza
o meno di migranti, l'entità di risorse a disposizione della scuola.
È difficile, ad esempio, ottenere buoni risultati con i test Invalsi
in contesti dove prioritaria è l'opera di alfabetizzazione
dell'utenza.
Difficilmente il sistema sarà in
grado di autoregolamentarsi in maniera virtuosa; assisteremo invece,
con molta probabilità a una competizione palese o strisciante tra
colleghi e alla definitiva scomparsa di legami solidaristici tra
lavoratori. Nutriamo molti dubbi sul fatto che tutto questo possa
apportare dei benefici pedagogici ai discenti.
La buona (?) governance
Ma
non è soltanto quest'ultimo aspetto che desta preoccupazione. È in
gioco, come qualcuno può avere già intuito, la stessa idea di
scuola pubblica come l'abbiamo intesa fino ad ora. L'esecutivo non
intende fare, in campo educativo, una semplice ristrutturazione; il
governo intende demolire buona parte dell'istituzione scuola così
come l'abbiamo conosciuta fino ad ora per (ri)plasmarla ispirandosi a
un modello neoliberista di società. Il sistema di incentivi di
natura economica ha come obiettivo quello di “innescare processi di
miglioramento e (di) attrarre docenti entusiasti e motivati dalle
prospettive di carriera” (p. 70). I
crediti
maturati, inoltre, dovrebbero confluire nel portfolio
di ciascun singolo insegnante il quale, a sua volta, dovrebbe esser
inserito
nel Registro nazionale dei docenti della scuola. Da questo registro,
nelle intenzioni del governo, ciascun dirigente scolastico sceglierà,
i docenti da “chiamare” nel suo istituto selezionandoli in base a
“un curriculum coerente con le attività con cui intenda realizzare
l'autonomia e la flessibilità della scuola” (p. 68). Gli autori
utilizzano diverse volte nel testo una metafora sportiva: il
dirigente deve poter “schierare la squadra con cui giocare la
partita dell'istruzione” (p.7); o, ancora, “ogni scuola deve
poter schierare la miglior squadra possibile” (p. 63). Siamo alla
riproposizione, fallita negli scorsi anni, della chiamata diretta da
parte dei dirigenti scolastici.
Questi
ultimi diventeranno dei veri e propri manager
in grado, gestendo in autonomia il 10% del fondo d'Istituto, di
premiare il proprio entourage,
di scegliere, oltre ai propri collaboratori, i docenti della scuola,
di gestire un potere di veto sulla progressione di carriera dei
lavoratori. Come è facile notare il potere discrezionale dei
dirigenti aumenta in maniera spropositata a discapito della
democrazia interna: non è un caso che a p. 71 tra i nuovi organi di
governo si parli di Consiglio (e non di Collegio) dei docenti, a
testimonianza del fatto che si intende trasformare l'organo da
deliberante a consultivo. È il nostro non è soltanto un sospetto
visto che, all'interno della stessa pagina, viene definita la
collegialità così come l'abbiamo conosciuta fino ad ora, nei
termini di “immobilismo, di veto, di impossibilità di decidere
alcunché”.
Per
intervenire sui meccanismi di progressione di carriera il governo
intende modificare
in
profondità lo status
giuridico dei docenti in modo da consentire “incentivi economici
basati sulla qualità della didattica, la formazione in servizio, il
lavoro svolto per sviluppare e migliorare il progetto formativo della
propria scuola” (p. 50). Rientra nello status
giuridico, come ricordato puntualmente (e didatticamente) dagli
autori, il reclutamento e la formazione iniziale del personale, la
funzione docente, il trattamento economico, i diritti (mobilità,
congedi parentali, ferie permessi e così via) e i doveri, le
sanzioni disciplinari,
la
cessazione del lavoro; tutte materie che dovrebbero essere
regolamentate dal contratto nazionale di lavoro ma che gli autori si
guardano bene dal ricordare.
Contratto e sindacato: i grandi
assenti del piano.
Ed
è il contratto il grande assente de La
buona scuola.
Il
contratto chiaramente non ha accezione positiva non soltanto perché
non è protagonista (ma neanche comparsa) del piano (che tratta
appunto della “buona scuola”). Il contratto è considerato
l'antagonista del rinnovamento; infatti il termine contratto, l'unica
volta in cui compare nel testo, è associato al termine “rigidità”
che impedisce alle scuole di modulare, con flessibilità, la propria
offerta formativa (p. 98). L'altro grande assente è il sindacato
che, a differenza del contratto, non viene mai citato. Il governo si
dichiara pronto a realizzare accordi bilaterali con diverse realtà
tra le quali associazioni professionali e organizzazioni datoriali ma
non con chi rappresenta le lavoratrici e i lavoratori della scuola. A
volte il non detto fornisce maggiori informazioni rispetto a quanto
viene scritto a chiare lettere: non si tollerano i corpi intermedi e
tra i lavoratori della scuola e le figure apicali non viene prevista
nessun tipo di rappresentanza. Siamo ovviamente contrari a questa
idea di scuola così come all'idea di società ad essa sottesa. È da
precisare che il nostro non è un rifiuto acritico del piano; abbiamo
precisato la nostra contrarietà ad una concezione manageriale della
scuola e all'eliminazione degli scatti di anzianità; non siamo
contrari invece a discutere di merito o di formazione. Chiediamo
soltanto di sederci intorno a un tavolo e di discutere di queste e di
altre questioni fondamentali per la realizzazione di una scuola
migliore. Il contratto è l'unico strumento in grado di garantire
delle regole certe e condivise a cui fare riferimento (nella scuola
così come in altri comparti lavorativi); costituisce la barriera
contro l'arbitrio dei dirigenti e impedisce, o può almeno limitare,
la lotta tra gruppi di interessi contrapposti.
Il personale ATA
A
differenza del contratto e del sindacato – i grandi assenti del
piano – chi riveste il ruolo di comparsa è il personale ATA. La
buona scuola
sembra priva di assistenti amministrativi, assistenti tecnici e
collaboratori scolastici. Sembra quasi che queste figure
professionali non rivestano un ruolo di tutto rispetto nelle nostre
scuole; se a p. 57, a margine del discorso sugli scatti di
competenza, si precisa laconicamente che anche per il personale ATA
bisognerà rivedere “il meccanismo di valorizzazione della
carriera”, a p. 83 si chiarisce che questi lavoratori costituiscono
un costo piuttosto che una risorsa: la digitalizzazione dei servizi
amministrativi, infatti, porterà “ad una considerevole riduzione
del peso degli assistenti amministrativi, ad un ridimensionamento
progressivo del loro numero, e pertanto ad un possibile risparmio di
risorse”.
Oltre a prender le distanze da
queste posizioni, chiediamo più rispetto per questi lavoratori e un
maggior investimento di risorse pubbliche: i collaboratori scolastici
e gli assistenti tecnici e amministrativi operano già adesso in
condizioni difficili e non è possibile pensare ad una ulteriore loro
diminuzione.
Il grande protagonista del
piano: il mercato e l'impresa
Chi,
invece, è il vero protagonista del progetto educativo del governo è
il mercato e l'impresa. Nel documento si afferma a chiare lettere che
la scuola deve tener conto “delle sollecitazioni, sempre più
urgenti, che provengono dal mondo dell'impresa e dalle comunità
territoriali” (p. 88). Per questo, secondo il governo, sarebbe
necessario il potenziamento dello studio di alcune discipline come la
storia dell'arte e della musica – capaci di rilanciare il Made
in Italy
“anche
scegliendo
strade imprenditoriali” (p. 91) – o anche delle lingue straniere
– “per svolgere quasi ogni professione e fare carriera” (p. 94)
– e l'introduzione di una nuova materia di insegnamento,
l'economia, in tutti gli istituti di secondo grado. Lo studio di
quest'ultima disciplina infatti consentirà, nelle intenzioni degli
autori, di colmare “l'analfabetismo finanziario” che colpisce
buona parte degli adolescenti italiani. Accogliamo con favore la
volontà governativa di potenziare lo studio di alcune discipline. Le
risorse a disposizione, ricorda il governo, ci sono in quanto il
fabbisogno di docenti è garantito dall'assunzione di tutti gli
insegnanti presenti nelle graduatorie ad esaurimento. Ma se le
risorse ci sono, per quale motivo non potenziare o diffondere anche
lo studio, ad esempio, del latino o della filosofia nei diversi
ordini di scuola? La creatività e la cultura non devono essere
finalizzate e piegate alle (mutevoli) esigenze del mercato.
Nell'ultimo capitolo del piano,
quello dedicato alle risorse necessarie al sostegno dell'offerta
formativa della scuola, si stabilisce la definitiva subalternità –
anche economica – della scuola renziana alle esigenze del mercato.
Dopo aver affermato che “le risorse pubbliche non saranno mai
sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra
scuola”, gli autori del documento ritengono che “per tornare a
competere” nel mondo della scuola è necessario “sommare risorse
pubbliche” agli “interventi dei privati” (p. 124). E' evidente
però che in questo modo il governo si arrende alla sfida di
garantire il diritto all'istruzione dei cittadini: la Costituzione
all'art. 117 stabilisce che il diritto sociale “istruzione” deve
essere garantito su tutto il territorio italiano al livello
individuato come essenziale.
Il
governo intende costituire le scuole in fondazioni o Enti con
autonomia patrimoniale offrendo ai settori del privato e del no
profit
tutta una serie di vantaggi fiscali elencati nel testo in lingua
inglese: il primo è un bonus di tipo fiscale (School
bonus);
il secondo è uno strumento che fornisce incentivi aggiuntivi per gli
investimenti che creano occupazione giovanile (School
Guarantee,
garanzia scuola); il terzo è il microfinanziamento (crowdfunding)
per attirare contributi di tutti i cittadini; in questo caso il
governo valuterà se mettere a disposizione fino a cinque milioni di
euro per raddoppiare o triplicare il contributo; infine vengono
previste obbligazioni ad impatto sociale (Social
Impact Bonds)
per indirizzare la rendita a favore della scuola. Riteniamo questo
tipo di proposta del tutto irricevibile. Non si vede infatti la
necessità, al fine di accogliere finanziamenti dai privati, di
trasformare le scuole in Fondazioni o Enti con autonomia
patrimoniale. La scuola risponde a bisogni didattici, educativi,
culturali e non certo economici. Non è in sé un danno il
finanziamento alle scuole anche da parte dei privati (e non c'è
bisogno per questo di esprimere il proprio provincialismo facendo
sfoggio della – tanto di moda – subalternità culturale alla
lingua inglese), ma è un grande e irreversibile danno attribuire al
privato l'aggio di essere sostitutivo o complementare al
finanziamento pubblico.
Chiediamo maggiori investimenti
pubblici nella scuola e non l'introduzione dei finanziamenti di
privati e imprese. La nostra idea di scuola – così come la nostra
idea di società – si basa sulla formazione e sulla crescita
culturale (a prescindere dalle esigenze del mercato e del mondo
produttivo), sul potenziamento del pensiero critico, sulla
possibilità di riscatto e di emancipazione sociale e culturale,
sulla solidarietà e non sul carrierismo fine a se stesso.
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