martedì 23 settembre 2014

Alcune riflessioni sul piano governativo "La buona scuola"

Assunzione in ruolo di 148 mila docenti precari
Chiunque si accinga a leggere il piano La buona scuola accoglierà con favore la proposta di assunzione a tempo indeterminato di circa 148 mila docenti (con il relativo svuotamento definitivo delle GAE e l'assunzione dei vincitori del concorso 2012) a partire dal prossimo 1° settembre 2015. E' sicuramente un segnale più che positivo che ricalca le proposte già avanzate dal nostro sindacato nel 2010 con l'Operazione centomila. Altri elementi importanti sono l'avvio di un sistema di reclutamento su scala nazionale basato sui concorsi e il progetto di costituzione dell'organico funzionale. Rimane aperto il problema delle risorse – tre miliardi di euro adesso, quattro tra dieci anni – in particolare se si pensa che, per ordini di grandezza di gran lunga inferiori, la copertura finanziaria non è stata trovata per la risoluzione di Quota 96; confidiamo comunque nel fatto che non si tratti soltanto di promesse bensì di una progettualità politica sostenuta da effettive coperture economiche.
Non del tutto condivisibile è invece il progetto di riforma delle graduatorie di istituto. Il governo intende conservare soltanto la II fascia; in essa sono inseriti i docenti abilitati all'insegnamento che, per varie ragioni, non sono presenti nelle graduatorie ad esaurimento. La prima fascia verrà svuotata a seguito delle immissioni in ruolo effettuate dalle Gae. La terza fascia invece, che racchiude al suo interno i docenti non abilitati, dovrebbe essere eliminata per volontà governativa e a sostegno di questa tesi l'esecutivo propone delle argomentazioni poco persuasive: si sostiene infatti che i lavoratori non abilitati non possono essere considerati precari, se non si vuole "correre il rischio paradossale" di considerare chiunque abbia svolto pochi giorni di supplenza come un precario della scuola (p. 25). Non è detto, però, che tutti i docenti precari inseriti in III fascia abbiano alle spalle pochi giorni di insegnamento: inoltre, non è del tutto scontato che la maggior parte dei precari non abilitati siano riusciti a frequentare i TFA o i PAS e non è neanche equo che l'amministrazione abbandoni al proprio destino, dopo aver fatto ampiamente ricorso a loro, uomini e donne che hanno lavorato per un periodo più o meno lungo della loro esistenza nel mondo della scuola. Del resto l'amministrazione potrebbe avere ancora bisogno di alcuni di loro. Ogni anno, ad esempio, il numero di immissioni in ruolo dei docenti di matematica delle medie nella provincia di Torino risulta inferiore al numero di posti previsti per il ruolo; ne consegue che tutte le supplenze annuali vengono assegnate a docenti inseriti in II e III fascia di istituto.
L'organico funzionale
Nelle intenzioni del governo le supplenze brevi verrebbero assegnate ad una parte del personale docente assunto in ruolo il prossimo 1° settembre: circa 60 mila insegnanti dell'infanzia e primaria e circa 20 mila della secondaria costituiranno l'organico funzionale di ciascuna singola scuola o di reti di scuole. L'organico funzionale, oltre a coprire le supplenze brevi, servirà ad ampliare l'offerta formativa e ad aumentare il tempo scuola (tempo pieno e prolungato) nella scuola dell'infanzia. Tutto questo è positivo a condizione che il MEF garantisca la copertura dei costi la qual cosa non è affatto scontata. Anche questo aspetto del piano è stato proposto da tempo dalla FLC: il nostro sindacato chiede infatti l'istituzione di un organico funzionale di docenti e ATA (questi ultimi quasi del tutto dimenticati da La buona scuola che li cita soltanto due volte come avremo modo di ricordare più avanti nel testo).
L'istituzione dell'organico funzionale al piano dell'offerta formativa della scuola, oltre a qualificare il progetto di scuola e a dare gambe all'autonomia scolastica, potrebbe assorbire tutte le necessità delle scuole, inclusa anche la copertura delle supplenze temporanee inferiori ad un certo periodo di tempo. Tutte queste proposte sono state presentate dalla FLC, nel giugno 2013, nel dossier La scuola vince in quattro mosse.
Per il governo la scuola fa carriera, per noi produce cultura!
È bene ribadirlo: è del tutto condivisibile la proposta di assunzione di 148 mila insegnanti così come è un dato più che positivo che l'esecutivo abbia intenzione di realizzare finalmente l'organico funzionale. Sono proposte che la FLC sostiene da sempre e che ha ulteriormente ribadito nel mese di luglio col Cantiere scuola. E' del tutto irricevibile invece il progetto di eliminazione degli scatti di anzianità a favore di un nuovo meccanismo di progressione salariale incentrato su quel che il governo genericamente definisce “merito”. Cerchiamo di capire come il merito dovrebbe entrare nelle nostre scuole e in che modo, al contempo, verrebbe modificata la progressione di carriera dei docenti. L'esecutivo intende eliminare gli scatti di anzianità (vale a dire gli automatismi di progressione salariale esistenti attualmente) con degli “scatti di competenza” che nelle intenzioni dovrebbero essere legati “all'impegno e alla qualità del lavoro” (p. 53). Questi ultimi due aspetti andrebbero misurati, secondo gli autori del progetto, ogni tre anni per mezzo del conseguimento di quelli che vengono definiti crediti “didattici”, “formativi” e “professionali”. I primi “si riferiscono alla qualità dell'insegnamento in classe e alla capacità di migliorare l'apprendimento degli studenti”; i secondi fanno riferimento all'aggiornamento professionale dei singoli docenti; gli ultimi possono esser ottenuti svolgendo attività aggiuntive all'interno dell'Istituto (coordinatori di classe, attività progettuali ecc.). Rimangono fumosi i criteri per mezzo dei quali ciascun docente dovrebbe conseguire questi crediti: non vorremmo si aprisse una nuova corsa al credito formativo certificato magari tramite corsi on line a pagamento. Altrimenti ci troveremmo nella situazione paradossale di vedere lavoratrici e lavoratori intenti a pagare corsi nella speranza di ottenere uno scatto. Si badi: speranza e non certezza visto che ogni tre anni lo scatto di competenza (60 euro in più in busta paga) spetta al 66% dei docenti. Il comitato di valutazione, del resto, è composto anche dal dirigente scolastico; sicché i docenti che intendono fare carriera, o che vogliono semplicemente assicurarsi un adeguamento salariale, dovrebbero necessariamente uniformarsi alle decisioni e, più in generale, alla “visione del mondo” della dirigenza con buona pace del pensiero critico e della libertà di insegnamento. Infine, i medesimi docenti “allineati” dovrebbero essere costantemente fortunati in quanto non è affatto scontato che riescano a rientrare, per ciascun triennio fino a fine carriera, nella cerchia del 66% dei meritevoli e competenti.
Secondo gli autori la competizione per lo scatto consentirà al sistema di trarre dei vantaggi (e tutto questo ricorda la vecchia idea liberista che il mercato sia in grado di regolarsi da sé): i docenti mediamente bravi, si afferma, tendenzialmente si sposteranno nelle scuole peggiori, cioè nelle scuole “dove la media dei crediti maturati dai docenti è mediamente bassa” (p. 58) in modo da avere più possibilità di ottenere lo scatto di competenza. Questo tipo di mobilità consentirebbe nello specifico alle scuole peggiori di migliorarsi. Un ragionamento siffatto però fa equivalere, del tutto arbitrariamente, il livello qualitativo di una scuola al livello di preparazione del corpo docente. Bisognerebbe prendere in considerazione anche altre variabili quali ad esempio il contesto socio-economico e culturale, la presenza o meno di migranti, l'entità di risorse a disposizione della scuola. È difficile, ad esempio, ottenere buoni risultati con i test Invalsi in contesti dove prioritaria è l'opera di alfabetizzazione dell'utenza.
Difficilmente il sistema sarà in grado di autoregolamentarsi in maniera virtuosa; assisteremo invece, con molta probabilità a una competizione palese o strisciante tra colleghi e alla definitiva scomparsa di legami solidaristici tra lavoratori. Nutriamo molti dubbi sul fatto che tutto questo possa apportare dei benefici pedagogici ai discenti.
La buona (?) governance
Ma non è soltanto quest'ultimo aspetto che desta preoccupazione. È in gioco, come qualcuno può avere già intuito, la stessa idea di scuola pubblica come l'abbiamo intesa fino ad ora. L'esecutivo non intende fare, in campo educativo, una semplice ristrutturazione; il governo intende demolire buona parte dell'istituzione scuola così come l'abbiamo conosciuta fino ad ora per (ri)plasmarla ispirandosi a un modello neoliberista di società. Il sistema di incentivi di natura economica ha come obiettivo quello di “innescare processi di miglioramento e (di) attrarre docenti entusiasti e motivati dalle prospettive di carriera” (p. 70). I crediti maturati, inoltre, dovrebbero confluire nel portfolio di ciascun singolo insegnante il quale, a sua volta, dovrebbe esser inserito nel Registro nazionale dei docenti della scuola. Da questo registro, nelle intenzioni del governo, ciascun dirigente scolastico sceglierà, i docenti da “chiamare” nel suo istituto selezionandoli in base a “un curriculum coerente con le attività con cui intenda realizzare l'autonomia e la flessibilità della scuola” (p. 68). Gli autori utilizzano diverse volte nel testo una metafora sportiva: il dirigente deve poter “schierare la squadra con cui giocare la partita dell'istruzione” (p.7); o, ancora, “ogni scuola deve poter schierare la miglior squadra possibile” (p. 63). Siamo alla riproposizione, fallita negli scorsi anni, della chiamata diretta da parte dei dirigenti scolastici.
Questi ultimi diventeranno dei veri e propri manager in grado, gestendo in autonomia il 10% del fondo d'Istituto, di premiare il proprio entourage, di scegliere, oltre ai propri collaboratori, i docenti della scuola, di gestire un potere di veto sulla progressione di carriera dei lavoratori. Come è facile notare il potere discrezionale dei dirigenti aumenta in maniera spropositata a discapito della democrazia interna: non è un caso che a p. 71 tra i nuovi organi di governo si parli di Consiglio (e non di Collegio) dei docenti, a testimonianza del fatto che si intende trasformare l'organo da deliberante a consultivo. È il nostro non è soltanto un sospetto visto che, all'interno della stessa pagina, viene definita la collegialità così come l'abbiamo conosciuta fino ad ora, nei termini di “immobilismo, di veto, di impossibilità di decidere alcunché”.
Per intervenire sui meccanismi di progressione di carriera il governo intende modificare in profondità lo status giuridico dei docenti in modo da consentire “incentivi economici basati sulla qualità della didattica, la formazione in servizio, il lavoro svolto per sviluppare e migliorare il progetto formativo della propria scuola” (p. 50). Rientra nello status giuridico, come ricordato puntualmente (e didatticamente) dagli autori, il reclutamento e la formazione iniziale del personale, la funzione docente, il trattamento economico, i diritti (mobilità, congedi parentali, ferie permessi e così via) e i doveri, le sanzioni disciplinari, la cessazione del lavoro; tutte materie che dovrebbero essere regolamentate dal contratto nazionale di lavoro ma che gli autori si guardano bene dal ricordare.
Contratto e sindacato: i grandi assenti del piano.
Ed è il contratto il grande assente de La buona scuola. Il contratto chiaramente non ha accezione positiva non soltanto perché non è protagonista (ma neanche comparsa) del piano (che tratta appunto della “buona scuola”). Il contratto è considerato l'antagonista del rinnovamento; infatti il termine contratto, l'unica volta in cui compare nel testo, è associato al termine “rigidità” che impedisce alle scuole di modulare, con flessibilità, la propria offerta formativa (p. 98). L'altro grande assente è il sindacato che, a differenza del contratto, non viene mai citato. Il governo si dichiara pronto a realizzare accordi bilaterali con diverse realtà tra le quali associazioni professionali e organizzazioni datoriali ma non con chi rappresenta le lavoratrici e i lavoratori della scuola. A volte il non detto fornisce maggiori informazioni rispetto a quanto viene scritto a chiare lettere: non si tollerano i corpi intermedi e tra i lavoratori della scuola e le figure apicali non viene prevista nessun tipo di rappresentanza. Siamo ovviamente contrari a questa idea di scuola così come all'idea di società ad essa sottesa. È da precisare che il nostro non è un rifiuto acritico del piano; abbiamo precisato la nostra contrarietà ad una concezione manageriale della scuola e all'eliminazione degli scatti di anzianità; non siamo contrari invece a discutere di merito o di formazione. Chiediamo soltanto di sederci intorno a un tavolo e di discutere di queste e di altre questioni fondamentali per la realizzazione di una scuola migliore. Il contratto è l'unico strumento in grado di garantire delle regole certe e condivise a cui fare riferimento (nella scuola così come in altri comparti lavorativi); costituisce la barriera contro l'arbitrio dei dirigenti e impedisce, o può almeno limitare, la lotta tra gruppi di interessi contrapposti.
Il personale ATA
A differenza del contratto e del sindacato – i grandi assenti del piano – chi riveste il ruolo di comparsa è il personale ATA. La buona scuola sembra priva di assistenti amministrativi, assistenti tecnici e collaboratori scolastici. Sembra quasi che queste figure professionali non rivestano un ruolo di tutto rispetto nelle nostre scuole; se a p. 57, a margine del discorso sugli scatti di competenza, si precisa laconicamente che anche per il personale ATA bisognerà rivedere “il meccanismo di valorizzazione della carriera”, a p. 83 si chiarisce che questi lavoratori costituiscono un costo piuttosto che una risorsa: la digitalizzazione dei servizi amministrativi, infatti, porterà “ad una considerevole riduzione del peso degli assistenti amministrativi, ad un ridimensionamento progressivo del loro numero, e pertanto ad un possibile risparmio di risorse”.
Oltre a prender le distanze da queste posizioni, chiediamo più rispetto per questi lavoratori e un maggior investimento di risorse pubbliche: i collaboratori scolastici e gli assistenti tecnici e amministrativi operano già adesso in condizioni difficili e non è possibile pensare ad una ulteriore loro diminuzione.
Il grande protagonista del piano: il mercato e l'impresa
Chi, invece, è il vero protagonista del progetto educativo del governo è il mercato e l'impresa. Nel documento si afferma a chiare lettere che la scuola deve tener conto “delle sollecitazioni, sempre più urgenti, che provengono dal mondo dell'impresa e dalle comunità territoriali” (p. 88). Per questo, secondo il governo, sarebbe necessario il potenziamento dello studio di alcune discipline come la storia dell'arte e della musica – capaci di rilanciare il Made in Italy “anche scegliendo strade imprenditoriali” (p. 91) – o anche delle lingue straniere – “per svolgere quasi ogni professione e fare carriera” (p. 94) – e l'introduzione di una nuova materia di insegnamento, l'economia, in tutti gli istituti di secondo grado. Lo studio di quest'ultima disciplina infatti consentirà, nelle intenzioni degli autori, di colmare “l'analfabetismo finanziario” che colpisce buona parte degli adolescenti italiani. Accogliamo con favore la volontà governativa di potenziare lo studio di alcune discipline. Le risorse a disposizione, ricorda il governo, ci sono in quanto il fabbisogno di docenti è garantito dall'assunzione di tutti gli insegnanti presenti nelle graduatorie ad esaurimento. Ma se le risorse ci sono, per quale motivo non potenziare o diffondere anche lo studio, ad esempio, del latino o della filosofia nei diversi ordini di scuola? La creatività e la cultura non devono essere finalizzate e piegate alle (mutevoli) esigenze del mercato.
Nell'ultimo capitolo del piano, quello dedicato alle risorse necessarie al sostegno dell'offerta formativa della scuola, si stabilisce la definitiva subalternità – anche economica – della scuola renziana alle esigenze del mercato. Dopo aver affermato che “le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola”, gli autori del documento ritengono che “per tornare a competere” nel mondo della scuola è necessario “sommare risorse pubbliche” agli “interventi dei privati” (p. 124). E' evidente però che in questo modo il governo si arrende alla sfida di garantire il diritto all'istruzione dei cittadini: la Costituzione all'art. 117 stabilisce che il diritto sociale “istruzione” deve essere garantito su tutto il territorio italiano al livello individuato come essenziale.
Il governo intende costituire le scuole in fondazioni o Enti con autonomia patrimoniale offrendo ai settori del privato e del no profit tutta una serie di vantaggi fiscali elencati nel testo in lingua inglese: il primo è un bonus di tipo fiscale (School bonus); il secondo è uno strumento che fornisce incentivi aggiuntivi per gli investimenti che creano occupazione giovanile (School Guarantee, garanzia scuola); il terzo è il microfinanziamento (crowdfunding) per attirare contributi di tutti i cittadini; in questo caso il governo valuterà se mettere a disposizione fino a cinque milioni di euro per raddoppiare o triplicare il contributo; infine vengono previste obbligazioni ad impatto sociale (Social Impact Bonds) per indirizzare la rendita a favore della scuola. Riteniamo questo tipo di proposta del tutto irricevibile. Non si vede infatti la necessità, al fine di accogliere finanziamenti dai privati, di trasformare le scuole in Fondazioni o Enti con autonomia patrimoniale. La scuola risponde a bisogni didattici, educativi, culturali e non certo economici. Non è in sé un danno il finanziamento alle scuole anche da parte dei privati (e non c'è bisogno per questo di esprimere il proprio provincialismo facendo sfoggio della – tanto di moda – subalternità culturale alla lingua inglese), ma è un grande e irreversibile danno attribuire al privato l'aggio di essere sostitutivo o complementare al finanziamento pubblico.
Chiediamo maggiori investimenti pubblici nella scuola e non l'introduzione dei finanziamenti di privati e imprese. La nostra idea di scuola – così come la nostra idea di società – si basa sulla formazione e sulla crescita culturale (a prescindere dalle esigenze del mercato e del mondo produttivo), sul potenziamento del pensiero critico, sulla possibilità di riscatto e di emancipazione sociale e culturale, sulla solidarietà e non sul carrierismo fine a se stesso.


Nessun commento:

Posta un commento